Ascoltando l’ultimo album dei Silver Key ho confermato una mia impressione: se il new prog è fatto bene, se ogni ingrediente è dosato a dovere, se ogni elemento ha il giusto spazio senza sovrapporsi, allora la formula funziona ed è persino piacevole. E’ una regola aurea valida per ogni genere, compresi quelli più statici sia in area progressive (il metal-prog ad es.) che fuori (es. stoner e doom). Importante non strafare.
Il nuovo album degli Zenit risponde a tale saggia norma: un lavoro di purissimo new prog con tutti i crismi del caso, dalla voce fishiana al lussuoso excursus strumentale floydiano, dall’incalzare epico caro ai Genesis allo scenario imponente in stile Yes. D’altronde i sette anni che separano questo disco dal predecessore “Surrender” non sono trascorsi invano per Andy Thommen e soci, che hanno riflettuto sulla svolta “definitiva” da dare alla propria attività. Tutto concorre a rendere “The Chandrasekhar Limit” un’opera inattaccabile: peccato però che la band svizzera abbia voluto sovraccaricare, rompendo il magico equilibrio che sulla carta pareva funzionare.
Basta ascoltare l’opener “Awaken”, l’incisiva “Pulsar” e le due suite, l’ottima “Matrimandir” e l’imponente “The Daydream” (una sorta di “Close to the edge” dei nostri giorni per ampiezza e dinamiche interne), per cogliere pregi e difetti dell’operazione: prog-rock confezionato ottimamente, senza scossoni e cedimenti, una sorta di grande rassegna delle varie anime del genere ma proprio per questo impersonale, così come accadeva alla vecchia band Clepsydra. A favore degli Zenit va riconosciuta comunque la qualità del progetto, le ambizioni e i mezzi – compositivi e tecnici – per raggiungerle, l’attenzione al dettaglio in linea con il concept tra scienza e spiritualità, l’abilità nell’estendere il modello marillioniano ad aperture varie.
Un album impeccabile, di sicuro il migliore della prog band svizzera, peccato trovarlo ancora così legato a certi stilemi.
D.Z.