Cortocircuiti della memoria. Adeguatamente stimolata, la nostra capoccia rivela cose incredibili, solleva il tappeto sotto il quale era nascosta da decenni una sensazione, era annidata in attesa di luce una molecola di buio. Ero a zonzo in città alta – quella Bergamo superiore in tanti sensi, dalla quale ho preso molto in termini di esperienza, idee e aspettative – e nelle orecchie si agitava The raven that refused to sing (And other stories), il nuovissimo album di Steven Wilson. Mi piace camminare con la musica: non è solo un fatto di ritmo (provate a passeggiare con Blues Variation degli ELP e vediamo chi non saltella baldanzoso), è che l’arte dei suoni decide, ti conduce, ti fa svoltare, ti devia e trasporta. E ti rianima.
Tant’è che entro per l’ennesima volta nella Basilica di Santa Maria Maggiore, classico luogo dove scopri sempre qualcosa di nuovo tale è la straordinaria ricchezza. Poi, tanto per dirne un paio, lì c’è il sepolcro di Donizetti e un organo a canne Vegetti Bozzi da tempesta, altro che Rick Wakeman. Mi avvicino all’altare maggiore, dinanzi al quale ci sono quattro tarsie lignee di Lorenzo Lotto: guidato da The Holy Drinker – pensa un po’ – mi imbatto in Davide e Golia. E quel trono che sembra un teatro (o è un teatro dove si fa politica? La sapevano lunga già ai tempi di Betlemme) mi scatena seduta stante un uragano di ricordi. Quelli pesanti, che ti incatenano, scatto di piombo e schiena a terra, dritto giù nel passato. Non so per quale dinamica dei neuroni, ma mi ritrovo fisso lì, mentre la gente mi cammina intorno, a pensare a un teatro della mia infanzia. Primi anni ’80, consueta vacanza estiva ad Acqui Terme, in un negozietto trovo un teatro di burattini di cui mi innamoro (il primo colpo di fulmine della mia vita?), poi regalatomi dai miei, che hanno sempre assecondato le mie strampalate – quanto incompiute – pulsioni artistiche.
Che gioia quel teatrino, che struggimento: tutto di legno leggero, basamento, due colonne e un frontone con fregi dorici, un tempietto arancione deputato alle commedie da far interpretare a una decina di marionette di gesso della tradizione goldoniana, da manovrare con un nastro attaccato dietro la nuca. Roba primitiva, ma che passione: ricordo in tarda estate, nel supplemento vacanziero salernitano dopo la tappa piemontese, mia cugina Alba ed io scrivemmo addirittura una commediola che registrammo con il mio piccolo Philips da battaglia. All’epoca i diavoli elettrici che mi assistono oggi erano già al lavoro: la colonna sonora della pièce era composta da Pet Shop Boys, Erasure e Depeche Mode. Le vergogne degli anni ’80 le abbiamo vissute tutti. Il bello era che a Montecorvino Rovella esisteva un negozietto di elettrodomestici che duplicava di nascosto le cassette, un antro segreto di nastri e note per pirati in erba: quella dei Depeche – a naso sarà stata Construction Time Again – la comprai con mio papà. Acquisto indimenticabile perchè il misterioso miniatore dei nastri aveva una scrittura eccezionale: la mia calligrafia ancora oggi ne è debitrice. Mi risveglio dal sogno e vado a osservare le altre tarsie del Lotto. Opere doppiamente esoteriche, visto che sotto le originali ci sono disegni alchemici finalmente riportati alla luce. Tanto per intenderci: sotto Davide e Golia trionfa ermetico Maximi Certaminis Victoria, che allude a furiose battaglie interiori, a bilance su cui soppesare anima e corpo, a minuziose mutazioni per superare la cancrena della materia e abbracciare luci dorate.
Evidentemente ogni superficie deve essere grattata, sotto ogni piano ce ne sono diversi, da leggere con occhi sempre nuovi. Sarà per questo che, di ricordo in ricordo, di nebbie invernali in stelle estive, vengo scaraventato nuovamente ad Acqui proprio stamattina, durante il consueto rito della colazione sonora. Ascolto Un sabato italiano di Sergio Caputo: leggera, ironica, tutta da ballare con passo strascicato da uomo che non deve chiedere mai, sigaretta, whiskey & coca, occhio malandrino. Nella mia attuale condizione da papone, non potevo che danzarla con la pupa in braccio, tra l’odore del caffè caldo e l’attesa di mia moglie in lenta emersione dalle fatiche notturne con la diavola che cullo a suon di swing. Ancora una volta un tuffo nel passato. Acqui, estate 1983. Vaghissime reminiscenze di quelle settimane da mia nonna tra lunghe passeggiate, fiere, focacce e sedute serali tra le stelle e i profumi monferrini. Ricordo che I like Chopin e Vamos a la playa mi facevano abbondantemente cagare, ma Caputo no, per niente: solo oggi capisco che dietro il jazz peccato di gioventù e l’aria da uomo navigato tra bettole e biondone, c’era ben altro. A mio modo cerco di farlo capire alla bambina tra un passo e l’altro. Sono sicuro che il concetto l’abbia afferrato, perchè lei lo sa già che “sulle immagini di sempre, nei discorsi e nei pensieri, dilaga anacronistica la musica di ieri”.