Lucio caro, carissimo.
Caro lo sei davvero, e tanto.
Non per i libri che ti ho dedicato.
Sei caro per la presenza. Proprio tu, che dell’assenza sei stato maestro. Niente palco, interviste al minimo sindacale, fino alla completa privazione di te. L’artista non esiste.
Un musicista che lavorò con te mi ha rivelato che una volta ti invitò con Grazia a pranzo da lui, insieme ad altri che frequentavano il Mulino con Giulio. Ognuno portò qualcosa, tu arrivasti con della carne per la grigliata, che però non fu consumata: da impeccabile asociale chiedesti di poterla riportare a casa. Credo che non smentirai questa storiella, come quella delle tue simpatie di destra. Ti saresti fatto due risate in università a Napoli quando il prof Gervasoni al convegno su di te – un convegno su Battisti: lo avresti mai detto? – affermò che si trattava della prima fake news della musica leggera italiana.
In questi giorni sto rilasciando un bel po’ di interviste. Ieri ha compiuto i suoi 80 anni Lucio Dalla e mi chiedono tanto su di voi, affinità e divergenze. Secondo me quando ascoltasti la potenza siderale di Stella di mare, Cara e Futura ti girarono notevolmente le balle, come quando facesti il cazziatone a Radius perché aveva suonato sul disco da un milione di copie di Battiato. Mi hanno interpellato anche sulla faccenda della tirchieria, come se fossi stato anche io lì, a vederti sempre con le stesse scarpe bianche o con la collezione di pantaloni a costine tutti uguali. Come se poi fosse rilevante ai fini della musica, che è tutto ciò che conta. In quella sei stato generoso, hai esplorato tutto il pensabile della forma-canzone anche se negli ultimi tempi hai lavorato col contagocce: otto pezzi ad album, secchi e bianchi, distillati ogni due anni e guai a sgarrare.
Ti faccio i miei auguri più grati con la foto di Gered Mankowitz, interno di E già, 1982. La prima battistata senza Mogol. Una spiaggia nordica apparsa in sogno. Uno specchio, una luce, il bianco di una supernova dopo aver scritto il tuo nome su qualcosa che vale.