Oltre che della impermanenza, sarebbe cosa buona essere consapevoli della propria imperfezione.
Quando si è coscienti di essere incistati di difetti, magagne e grumi, si procede puliti. Qualcuno si completa con una metà, qualcun altro trova respiro all’ombra dei maestri.
Ecco perché amo Bob Dylan.
Il trionfo dell’imperfezione talmente consapevole da essere perfetta, compiuta. La voce/non voce di un orco bambino perfido e spaventato, sadico e stupefatto; la pulsione rarefatta del blues/non blues. L’autorevolezza del non vate, che se “Rock me, pretty baby, rock me ‘til everything gets real” la canto io sprofondo nel regno delle banalità ma quando la dice lui diventa Nobel.
Amo il Dylan di Time Out of Mind.
Il suo ultimo grande album, sostiene qualcuno – e Daniel Lanois ne è artefice massimo.
Più che un disco, una scuola storta e sgarrupata fatta di suono. Un gomitolo di polvere. Riffini infiniti come un ricamo, punto croce elettrico senza intro e outro, appare e scompare come una macchia desertica valvolare. Se i Weather Report erano in solo senza essere in solo, il Dylan del 97 è un’isola affollata di solitudini.
Un disco-oracolo che al primo ascolto svela, al secondo provoca perchè non sei stato attento, al terzo ha già voltato le spalle perché il senso era nel cuore sfuggente del brusio prima di cominciare.
Tanto da meritare un haiku, impeccabilmente sgangherato come lui:
Puntina lenta
Un mercurio di tuono
Mille miglia via