Quando ero piccolo, dopo essermi ficcato nel sedile di dietro della macchina del mì babbo, scoprivo inauditi piaceri nel viaggio che ci portava ad Occiano. Gli ultimi giri di curva prima di approdare al paesello erano l’epitome della tristezza: si era già arrivati. Quando il rimbombo interiore che precede i miei ascolti prediletti comincia a farsi sentire, nasce il godimento: quando In a silent way è sul piatto, quando Abbey Road è nel lettore, quando Houses of the holy serpeggia nel pc, sì è già arrivati. Quando sto per ciaciarmi mia moglie, quando l’elettricità mi avviluppa peggio di un riff di Keith Richards e comincio a sentire odore di carne, eccolo lì il trionfo del piacere: quando si tocca l’estasi, si è già arrivati. E’ così anche per la radio. La mia amata radio. Quando percorro tra le brume della sera gli snodi dei viali che mi conducono in redazione, è tutto lì il gusto proibito. Passo dopo passo, passo su passo, passo e passo, c’è tutto un meccanismo zuccheroso ed erogeno che ti prende alla gola: quando busso e l’amato direttore apre, sono già arrivato. Il climax del piacere è sempre nel suo divenire, non c’è verso.
Sei anni di radio equivalgono per me a sei anni di passi, odori, sguardi, furie, di ombre e lampi, di luci e serrate, di erezioni e nostalgie. Quando ho cominciato Rock City Nights, nell’ottobre del 2007, all’orario ormai leggendario delle 21.30, vivevo in lovely San Giorgio countryside: una decina di km mi separava da Radio Città BN, li affrontavo come un rampante rocker di strada, col piede sparato sull’acceleratore mentre il direttore creava l’atmosfera giusta per il mio avvento suonando Soundgarden, Alice Cooper, Marlene Kuntz e Deus, tanto per solleticare i miei più bassi istinti. Nel 2009 mi sono trasferito a Benevento – zona alta, dove albergano i signori e pochi temerari rocker sfidano le tenebre – e i km dalla radio sono diminuiti: siamo scesi a tre, percorsi in compagnia di mia moglie, fedele compagna nella vita e impeccabile regista del mio programma. Pioggia, vento, nebbia, ghiacciai eterni, aurore boreali e tempeste solari non hanno mai impedito il nostro amabile viaggetto serale, fino a planare nel morbido covo della radio, sempre caldo come un ventre di bue. Dal marzo del 2010 ci siamo trasferiti un po’ più giù – ancora Benevento alta, ma tra i signori c’è finalmente qualche diavolo elettrico che trama contro la pubblica morale – e i km sono diventati poco più di due. La goduria nello scendere e salire resta immutata. Ottobre 2012: ricomincia RCN (sesta edizione my friends), io sono diventato papà e la mia metà resta a casa a fronteggiare la bestia, ehm, ad accudire la cucciola. Scendo e salgo da solo. Niente macchina, nemmeno nei casi di urgenza come questa sera.
Doppia urgenza, to be honest. All’andata una nebbia talmente fitta che un disco di Burzum al confronto è una sarabanda per coniglietti. E dire che siamo abituati ai vapori che animano questa ridente cittadina adagiata in una conca: ricordo che quando la mattina scendevo al liceo, nel basso del fondo città, sembrava di entrare nel bicchiere con le nuvole di Magritte. Urgenza del ritorno: nebbia ancora più compatta, entrata persino nei portoni, nei vicoletti pìù bui e nei cassonetti, altro che Totò e Peppino a Milano. Urgenza ulteriore: scrivere al volo questo straccio di misera memoria notturna, prima che svanisca con le luci del mattino. Preso dalla smania di fissare alcuni pensieri ho immaginato anche di registrarli sul telefonino: per quanto il fighissimo smartphone che ho comprato abbia mille funzioni compresa l’app callifuga e l’impostazione rabdomante, registrarmi è un’opportunità anch’essa avvolta nella nebbia. Ho pensato anche di telefonare a me stesso in viva voce e registrarmi, ma trattasi di opzione alquanto complicata, oltre che surreale. Tipo il famoso escamotage per gabbare la Siae, ovvero spedire a se stesso una raccomandata in busta chiusa. Roba che mittente e destinatario si confondono in un vorticoso loop spaziotemporale. Opto per soluzione da vetusti babbioni: passo lesto e si scappa a casa.
Senza cuffiette stasera, tra l’altro. Il bello di questa frizzante passeggiata serale, che al ritorno – finita la diretta, copiosa fonte di orgasmi – diventa arcano itinerario notturno, è che mi fanno compagnia i miei amici mp3. Piccini ma tanto capienti. Da quando ho ricominciato RCN c’è il Bob Dylan di Tempest a valorizzare la mia baldanzosa andatura. Il problema è che quando busso alla porta della radio sta per finire la mia preferita, quella Pay in blood tutta soul e sensualità, E Street Band e sculettamenti. Quello che c’è dopo ancora non l’ho sentito. Mi ricorda quando l’amico duplicatore di turno, nel profondo degli anni ’80, mi registrò su cassetta da 45′ Somewhere in time degli Iron Maiden: c’era anche dell’altro in quel disco che sforava clamorosamente i tre quarti d’ora, ma non l’ho mai ascoltato… Non credo lo farò in futuro: mi garba il mistero, adoro la sospensione dell’ignoto. Quando non c’è musica mi godo le consuete figure che si incontrano nella Benevento notturna: avvertirle, nel pieno di questa ovattata cortina fumogena che cala dall’alto e ammanta la città, non è semplice, ma ormai le riconosco da lontano. A volte immagino come le avrebbe descritte Piero Chiara, il mio adorato, e mi viene in mente Il piatto piange. C’è il politicozzo di turno che incrocio puntualmente: abbiamo in comune le cuffiette, ma guardando quell’occhio di lince, la coppola scolpita sulla testa e il passo da nerd tipo film americani mi sa tanto che il massimo che può ascoltare sarà Nicola Di Bari. C’è il barman infreddolito, trincerato stretto nel suo piumino mentre una coda di camice bianco svolazza dal di dietro: massima solidarietà, anche perchè dentro di sè ascolta Henry Rollins a tutto spiano e spacca tutto. Giro l’angolo e vicino alla villa appare l’avvocato/professore con canetto ipereccitato che annusa e punta anche al buio. Tante volte mi sono chiesto cosa ascolta un ometto attempato con una folta cornice di zucchero filato che gli gonfia il viso: Tchaikovsky, ma con tanta voglia di Frank Sinatra.
Tra le saracinesche dei baretti che chiudono, gli inguaribili impenitenti notturni che schizzano con le auto gonfie di musica (solitamente di merda, guarda un po’), i commiati a rimbalzo delle coppie di pettegoli che ancora una volta hanno sparlato di calcio e politica, gli infiniti bacetti dei fidanzatini che sfidano l’ira paterna pur di rubare un ultimo secondo prima di una notte di sospiri solitari, infilo le chiavi nella porta, tra il silenzio e i capelli bagnati. Trovo mia moglie con il computer acceso e la musica felpata: sono a casa. Ma non sono ancora arrivato.