Sono un discreto frequentatore di bar, mi posiziono al banco per sentirmi circondato da brusii, inflessioni, una nuvola di aneddoti rubati e rivelazioni afferrate con la coda dell’orecchio. È nutrimento per l’ispirazione, vita che brulica e muterà in scrittura. La mia permanenza fugace si limita al caffè, uno spettatore che assorbe col setaccio.
Così sui social. Osservo, capto, mi informo, condivido con parsimonia, centellino. Mi raggela ancora la sincronicità del tutto, da Zerocalcare a Get Back passando per la morte dell’artista famoso/a di turno, un vortice di consumi esibito senza respiro, senza assimilazione, dunque senza continuità. Eppure la bellezza è figlia di pause, silenzi, meditazioni.
Anche per questo temo le precipitazioni del pensiero associativo, che regna in tutta la sua potenza di gravità. Un maestro sosteneva che l’abito mentale della massa è di ritenersi intelligenti solo quando ci si esprime in modo negativo, e questo ha un effetto prepotente, una valanga. L’inferiore tende a consumare il superiore.
Ci si dedica ad altre esperienze, inchiostro e carta. Nei decenni ho selezionato migliaia di testi, un coro di storie che popola i miei ambienti, dal quale al momento giusto – l’occasione propizia, secondo congiunzioni a noi antecedenti – emerge una voce.
Stamane ho ripreso La Trilogia della censura di Oliviero Beha, che da solo ha ceduto lo spazio all’oracolo giallo di Yoko Ono pre-John. Il segreto è la qualità dell’immersione.