A clic can rule the world. Potere degli scatti. Una pagina del mio diario può nascere proprio così: un oggetto, un luogo, una luce o una combinazione di elementi che balzano agli occhi, un clic immediato, un fermo-immagine pieno zeppo di evocazioni, allusioni, rimandi. Spesso questo piccolo spazio di nostalgica follia viene fuori così: dalla forza di una foto, dalle risonanze che scatena. A modo mio cerco di emulare il Calvino del Castello dei destini incrociati: tarocchi parlanti in una vicenda tanto aleatoria quanto oracolare e rivelatrice. E’ tutto un fatto di heavy memorabilia.
Proprio come quelli ritratti in una fotina scattata qualche giorno fa a casa dei miei. Solo oggi, a una settimana di distanza, complice la tragica malinconia della domenica sera, torno su quell’immagine e sulla sequela di simboli che contiene. Mangio dai miei, dopopranzo itinerante tra una camera e l’altra a caccia di antichi odori, dalla finestra un’immutabile casa bianca in un gioco di linee e spazi fermo, cristallizzato nella mia adolescenza. Proprio quella, trascorsa a suon di musica e di una strana forma di ribellione, tutta riflessiva, onirica, meditativa. Anche se protagoniste di questi assalti alla bastiglia interiore erano copiose scariche elettriche, non sono mai stato un moderno teddy boy, il massimo della rivolta era qualche fulminea scritta sui banchi di scuola e i muri del mio paese (poco tempo fa ho scoperto che un mio poderoso inno alla disobbedienza scolastica è ancora presente su un muretto, chi lo scova e mi porta regolare reperto fotografico gli regalo qualche disco degli Yes).
La tempesta era tutta dentro di me, in una guerra di silenzi di piombo e bordate rock, di mutismi ostinati e bagliori zeppeliniani. Mi è bastato guardare un angolino della mia vecchia cameretta per rituffarmi in quei pomeriggi inquieti, in attesa che Tonino, Massimo ‘o Barone e il Casazzone venissero a salvarmi. La salvezza vera non arrivava tanto con gli amici: era sua maestà elettrica a condurmi nel tempio. Proprio lì, sacerdote incontrastato, amavo collocare in ordine alfabetico le numerosissime cassette che registravo e impreziosivo da buon miniatore con fantastici loghi (mia prima e temo unica entrata nel mondo del disegno). Amavo lanciarmi a capofitto tra le foto dei gruppi che ascoltavo, sistemare oggettini che per me diventavano magici, dalla spilla col volto santo di Augusto Daolio alla confezione di fiammiferi griffata Queens Of The Stone Age, arrivata a casa Zoppo grazie a mio fratello quando Josh Homme e soci ancora non erano di fama mondiale. E quando nell’alieno deforme uscito dai sofficini (che figata l’attinent marketing degli anni ’80) infilammo la foto di Ozzy Osbourne trasfigurato, inevitabile fu una festa debordante e orgiastica con gli Exogini.
Scrivo e riascolto Sheik Yerbouti di Frank Zappa: in un lampo mi torna alla mente una fredda, umida e fangosa nottata sangiorgese, quando il mitologico Golini mi prestò un paccone di 33 giri da registrare, tra i quali primeggiava il faccione da sceicco di Frank. Ricordo gli odori di quella tarda serata, le luci schiacciate del Viale e i riflessi sull’asfalto bagnato, un paesotto che dormiva anche di notte mentre i diavoli elettrici ci assistevano in un misterioso rituale di baratti vinilici. Frank era in strana compagnia: con lui c’erano Battisti, Teresa De Sio, se non erro anche Depeche Mode e Loggins & Messina. Accostamenti arditi, i signori dell’accademia li avrebbero censurati ipso jure ma noi cazzoni di provincia li amavamo, bramosi com’eravamo di ferite e scoperte, di scossoni e cicatrici, tutto da bruciare e mandare a memoria. Ognuno sulla via dei propri destini incrociati.