Quando studiavo quella scienza di equilibrismi tra il grossolano e il sottile che è il diritto mi colpivano le distinzioni. Le articolazioni logiche, la sapienza organica, matematica, che porta al discrimine. La differenza tra interruzione, sospensione, estinzione.
Ogni 25 aprile ho il mio rito.
Parte da lontano, anzi da remoto: da antica vicenda famigliare.
Riparte da vicino, anzi da prossimo: dal sospingere della primavera.
Prolunga la sua coda fino al primo maggio, segue la scia rossa di cui si alimenta.
Consiste nel rispolverare le vecchie e logore foto di mio nonno del 1945-46; nell’osservarle accogliendo semi di riflessione. Cerimonia da giardino segreto, scoperto; radici e volte celesti.
Quest’anno ho pensato molto.
Ho desiderato di sospendere questo rito laico, di mutarlo in seduta d’ascolto, ricorrenza con nuovo senso al centro dell’altare. Desiderio di ostinati profondi degli Atoms For Peace, di oasi infernali di Lustmord, suono ctonio da dissotterrare e esorcizzare. Ero persino rinfrancato dagli studi universitari: la sospensione arresta, non annulla il decorso. Ma la ritualità non è affare da codici, è energia incarnata in formula, è liturgia che rivede, rivolta, rivoluziona, rivive poi rivuole la memoria. Liberazione interiore: una questione privata.
Buon 25 aprile.
Buona liberazione dalle dittature del pensiero, dai rumori, dal parlare irrispettoso (e pedestre: piuttosto che/settimana prossima/tanta roba/particolare/iconico), dalle violenze del quotidiano, dai consumi, dalle censure, dalle sporcizie altrui, dai fascismi striscianti.