Mudra Sounds X.
La Grande Musica Americana dei Grateful Dead è uno straordinario atto d’amore. Non vive di passaggi bruschi o sbalzi repentini. Lo scalpitare del galoppo di Truckin’ è gentile, l’atterraggio da Scarlet Begonias all’iride festosa di Fire On The Mountain è morbido, Dark Star è il respiro degli dèi perso e ritrovato tra gli ammassi stellari. Anche le spinte di coda in Saint Stephen non disarcionano chi ascolta, saldo e sicuro in viaggio nel Volo Cosmico. Un giorno studieremo la storia del basso moderno con gli occhiali di Phil Lesh, da Haight-Ashbury alla via Lattea.
Spesso – molto spesso… – erano sgangherati, ma bastava vedere il sorriso da stregatto di Jerry Garcia per appaciarsi. Ogni tanto guardo i video di Bob Weir che fa ginnastica zen: è emozionante la determinazione con cui a 74 anni, bianco spelacchiato e curvo, indossa la Veste Elettrica per portare in giro ciò che resta della Sinapsi Celestiale.
In studio invece Dead con taglia e cuci: il primo è un atto di forza, il secondo fora e muta. Palco e sala hanno in comune il percorso alchemico, il viaggio junghiano dell’eroe, anche in un disco costruito e suonato come Blues For Allah. La copertina di Philip Garris – porta magica che inizia all’itinerario nel suono – compete con la crepuscolare mietitrice di Wake Of The Flood e il lussureggiante Culto Solare di Aoxomoxoa. E poi la prima facciata, passeggiata nella Bay Area fino al groove misurato di Franklin’s Tower; il funk si contiene come si sorvegliano le parole perché il troppo distrae.
Un dono di brezza californiana.
Serena, lucida, una carezza col soffio dell’oceano.