In berbero Tinghīr significa appartenente alle montagne. Si scrive ⵜⵉⵏⵖⵉⵔ.
Un nome che evoca aria e legami, la profondità del vincolo e l’altitudine della meta. L’alpinismo metafisico di René Daumal sulle vette dello High Atlas.
Un anno fa, il 24 maggio, puntavamo a sud-est.
Avevamo lasciato alle spalle prima Marrakech poi Télouet – provincia di Ouarzazate, profumi di sabbia e rose – per muoverci alla volta dell’oasi di Skoura nella Valle delle mille Kasbah, lungo il corso del Dadès. Destinazione Tinghīr, regione di Drâa-Tafilalet: un’oasi di palmeti ombrosi lunga una trentina di chilometri tra le montagne, Alto Atlante a nord, Piccolo Atlante a sud.
Dopo il ribollire torbido della medina e la frenesia notturna di Jamaa el Fna, dove di immobile si vedeva solo l’imponente punta della Kutubiyya, Tinghīr era il luogo perfetto per il ritiro. Per arrivare lì e pernottare al Tomboctou, l’antica kasbah dello sceicco Bassou Ou Ali, percorremmo una interminabile via nel deserto. Bastava fermarsi e scavare al volo, anche alla cieca, per trovare fossili dall’alba dell’uomo.
Said ci fece attraversare un posto magico: Maḍīq Tūdgha, le Gole di Todra. Un canyon, anzi uno wadi, scavato dal fiume sin dalla notte dei tempi. Lì il silenzio è davvero silenzio.