Un anno e mezzo fa, nel pieno della prima, complessa e misteriosa clausura virale, facevamo delle piccole fughe. Occasionali, timorate, a volte rocambolesche perché repentine. Le bambine avevano bisogno d’aria, io di luce, a loro piaceva il senso proibito di queste scappatelle vietate, a me il gioco di quei 500 metri fino alle giostre che diventavano un’avventura di miglia epiche.

Vivendo defilati, in una manciata di casette ai limiti del contado, ci fu più agevole ritagliare piccoli frammenti di respiro. Oggi sconfinare in una plaga liminare – che poi non esistono confini tra luoghi affini, un’unica landa di speranze diverse a seconda del cuore e degli orizzonti, agglomerato di solitudini – ha un sapore diverso. Le bambine crescono, il cielo si gonfia di nuvole, il grano promette, la girandola attende.
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Ho scattato la foto in un piccolo parco. Preferisco non rivelare dov’è il fazzoletto di terra perché va protetto da assalti domenicali. Piccolo davvero, recintato con cura, delimitato da siepi e aperto da un cancelletto verde tipo casa degli hobbit. È una sorta di enclave autogestita, con panche colorate e giochi di ogni provenienza, rigenerati e schierati a mo’ di paese dei balocchi.

Andiamo sempre con piacere lì, le cucciole si sbizzarriscono provando tutto, dalle palette nella sabbia alla rotazione vertiginosa dell’amaca appesa al ramo possente. Io apprezzo l’ambiente raccolto, il clima comunitario e condiviso del luogo, i suoi confini: da un lato la stradina che accompagna fuori dal paese, dall’altro una sterminata campagna.