Scende ruzzolando.
Avrà avuto una quindicina d’anni più di me, e soprattutto la sbalorditiva capacità di prodursi velocemente dei cannoni cilindrici tipo sigari stellari. Li usava in combinato disposto con la musica – adeguatamente selezionata, centellinata foglia dopo foglia – come tappeti volanti per i suoi viaggioni.
Ricordo che metteva su con oculatezza i Tangerine Dream di metà anni ’70, i Pink Floyd del primo Lp, i Popol Vuh quando il volo doveva avere un tenore mistico, e tra gli italiani Anima Latina.
Ne era orgoglioso, e come si vantava nel raccontare che da ragazzetto portò con sè il vinile di Lucio per andare in Nepal – poi si fermò nel Caucaso, vai a capire che giro aveva fatto.
Il Battisti cannabinoide mi stupiva, eppure sull’oceano di suoni dell’album del 74 lui trovava il trampolino di lancio ideale. Dalla caverna del cuore agli uomini celesti.
Ieri sera lo abbiamo ascoltato in macchina.
Parte lento, la voce-suono conquista il suo spazio.
Che strana però questa musica – lei mi ha detto.
Mi ha fatto pensare a Nietzsche: se la Filosofia serve a turbare, serve a nuocere alla stupidità, allora la Musica serve a stranire, serve a nuocere alla rigidità.
Anima Latina non è solo un esperimento o un’operazione culturale, come affermò Lucio nella famosa intervista a Renato Marengo. E’ un’esperienza. Un disco-oracolo. Svela, spalanca l’immaginario e ti fa sprofondare, poi ri-vela. Fa scoprire che la musica è imponente, piramidale, alchemica – non soltanto la colonna sonora per itinerari psichedelici.
Il segreto è la più grande motivazione: non la rabbia, non l’amore, non la conquista, non la rivalsa. Ma la fame. Quando musica e miseria diventan cosa sola.