Per noi signorini di buone maniere e modi garbati è impossibile non amare i postacci.
Il motivo non è tanto l’attrazione per il diverso quanto l’assenza di aspettative. Al postaccio non interessa da quale clan provieni e come sei vestito, non preme che tu faccia il passaparola stiloso per selezionare la clientela. Di darsi un tono, di volerti agghindato per sottolineare l’appartenenza al milieu griffato, della foto per legittimare il place to be, al postaccio non frega niente.
Il contratto sociale del luogo fighetto obbliga a dress code, condivisioni social, ammiccamenti e ammoccamenti; il postaccio non ha pretese, non chiede adesioni ideali e reali. È un luogo di consumo schietto, un rude spaccio di materia prima denudato da ogni sovrastruttura: nonostante il ghigno truce e impassibile di chi è al bancone il caffè è sempre rigenerante, il cornetto sempre buono, il cicchetto sempre salutare.
Il postaccio è autenticità interclassista. Un arco costituzionale che va dall’autogrill notturno e sfrecciante alla friggitoria del dopo scuola, dal baraccio antelucano per fravecatori imprecanti di sonno alla panetteria che sforna pizze fritte per uomini veri.
Dinanzi all’omologazione contemporanea il postaccio è luogo di resistenza culturale, ancorché inconsapevole: la consapevolezza del gesto ribelle è tutta in chi lo cerca, lo annusa, lo sceglie e vi entra, perdendosi.
Quando si ama una città scatta la mappatura dei postacci. Più è ricercata, luccicosa e chic, più svela postacci annidati nell’impensabile: scoprirli scatena un vero innamoramento.
Grazie al signor Giuseppe, nuovo e assertivo amico consigliere di musiche sante, ho trovato un postaccio subito eletto a luogo di meditazione oculare. Dopo il caffè del coronacene – appiedato, distanziato, mascherato, plasticoso, frettoloso – mi sono immerso in una parete a destra del bancone. Un kolossal visivo, più che un collage: Beatles, De Andrè, Queen Elizabeth, Tex Willer, Bud Spencer. Popular Culture Murale in un vortice a sud del sud.