Non per fare il bastian contrario, lo snob scassamaroni o il radical chic con la puzza sotto al naso, ma a me il natale sta sui coglioni, e da tempo immemore. Chi mi legge – ma anche chi mi conosce un pochino – sa bene che tutto ciò che è festa comandata (già il fatto che sia un comando è una rottura…), passerella istituzionale e sfilata con abiti buoni e capigliatura tirata a lucido mi irrita profondamente. L’unico motivo di opportunità dell’esistenza natalizia è che non si va a scuola, ma questo potrò dirlo ancora per poco: quando la belva che ora sta ronfando nel lettino diventerà un po’ più grande e dominerà la casa più di adesso, non vedrò l’ora del 7 gennaio…
Tra l’altro, nella giostra di ricordi felici che talvolta riaffiorano, ricordo un luminoso e solare 7 gennaio di tanti anni fa. Studentello liceale, mi ritrovai mogio mogio nel bel mezzo di un mucchio grigio e tetro di colleghi condannati a rientrare in classe dopo un paio di settimane d’aria ed elettricità, quando fu comunicata una notizia: un’ala del liceo era stata bruciata, il ritorno a scuola rinviato a data da destinarsi. Non mi vergogno affatto nel rivelare pubblicamente che in quel boato facinoroso e ferale che esplose all’annuncio del videpreside, le mie urla furono tra le più beluine, tipo orgasmo da bue muschiato tenuto in gabbia per sei mesi con una foto di Cicchitto. Una grande appendice post natalizia, che festeggiai a casa – lo ricordo come se fosse ora, e un’erezione sopraggiunge – con In Rock dei Deep Purple e Slip Of The Tongue dei Whitesnake a volumi sconvenienti.
Per il resto, ogni natale è stato una ciofeca. Spesso mi interrogo sui motivi di questa disaffezione, e a naso sento che vengono da molto lontano. Oggi mi è tornata in mente una vecchia canzone che mi ha fatto riscoprire una delle motivazioni antiche di questa speciale allergia natalizia. Quando ero piccolo, l’azienda per la quale mio papà ha lavorato per quasi mezzo secolo regalava ai dipendenti un po’ di cose carine tra natale e capodanno: tra queste c’era il famoso pacco dono che comprendeva discrete leccornie ma anche un buono per un regalo destinato ai figli. Siccome tale dono era da ritirare in un grosso negozio di giocattoli di Napoli e all’epoca i miei pensavano bene di portarmi con loro, mi ritrovavo in una spiacevole condizione: ero l’unico bambino in un negozio popolato da soli genitori a caccia di sorprese natalizie per i figli, costretto a scegliere il proprio gioco preferito che sarebbe stato aperto solo sotto l’albero la settimana successiva. Un giramento di balle notevole.
Una cosa però la ricordo con piacere. Era il natale del 1984, Gaetano (mitologico collega capellone/baffone/musicofilo del babbo sul quale presto arriveranno copiosi ricordi) aveva prestato a mio padre una cassettina che custodisco ancora con piacere e che negli ultimi tempi ha conosciuto anche la compagnia del fratello maggiore vinile: Musicante di Pino Daniele. E’ a tutt’oggi il mio disco preferito del cantautore napoletano, ma soprattutto è una delle opere che riascolto puntualmente con immutata gioia. Grandi canzoni, pathos, intensità, fusion acustica struggente e un pezzo che per me significa natale, viaggio, notte, semafori lampeggianti, luci lontane, ritorno a casa e profumo di presepe, attesa per un pacco da scartare fingendo sorpresa. Il pezzo si chiama Stella Nera, e quando anni dopo ho scoperto che quell’assolo di sax soprano che mi spezzava il cuore era di Mel Collins dei King Crimson, ho capito tante cose.