Oggi pomeriggio ho finalmente deciso di intraprendere una nuova avventura: un pensiero di libro che mi porto dietro da un bel po’ vedrà la luce. Inutile chiedermi di cosa si tratta: un po’ per insicurezza, un po’ per provincialismo, un po’ per amore della sorpresa, un po’ perchè detesto che mi si stia col fiato addosso, preferisco evitare quei noiosi diari di bordo che annotano giorno dopo giorno lo stato di avanzamento della scrittura. A me piace rivelare tutto quando il libro è tangibile, maneggiabile, sottolineabile e, nella più catastrofica delle ipotesi, stracciabile. Ho sempre fatto così e anche stavolta non mi contraddirò. Sappiate solo che sarà un bel libro, e che se Buddha non toglie lo zampino sotto l’albero di fico potrebbe già uscire l’anno prossimo. Insomma oggi, dopo aver preso la solenne decisione, ho raccolto un corposo malloppone di volumi che giaceva impolverato nella libreria accanto al letto: testi importanti per questo nuovo progetto, che avevo comprato da più di un anno e che attendevano solo la lettura.

Nella libreria accanto, quella della mia amata mogliettina che, come in uno scherzoso specchio dei contrari ha Mario Soldati nella posizione dove fa bella figura la mia guida alla psichedelia moderna, ha Josè Saramago dove io custodisco con cura il tomo elettrico sugli AC/DC, l’occhio mi cade su Cesare Pavese. Paesi tuoi: che faccio, non lo leggo? E così, il solenne e luminoso proposito di cominciare oggi a leggere il necessario per poter imbastire il nuovo libro si ferma proprio all’inizio. Qualche ora dopo prendo il mio prezioso block notes nero (impreziosito dal motto di Neil Peart: “Non disperdere la tua ispirazione”) e mi accingo a buttare giù i primi appunti, come sempre faccio quando prima di passare al pc spalanco le dighe e faccio esondare il fiume in piena. Proprio in quello spauracchio di pagina bianca che tanti temono e che per me ha l’eccitazione di un territorio tutto da esplorare con passi d’inchiostro, a mo’ di segnalibro trovo una vecchia foto. Non ricordo come sia finita lì, non ricordo da quanti anni non la guardavo. Lascio perdere di nuovo il santo proposito di attaccare a scrivere e mi lancio a capofitto in quel vecchio scatto.

Sepino (CB), scavi di Altilia, l’antica città romana in pieno Sannio, alle porte del Molise. Paesaggio innevato in fondo, probabilmente sarà stato il giorno di pasquetta ma l’anno ahimè, proprio non lo ricordo. Non ho le doti vestiario-mnemoniche di Domenico Soriano – che in Matrimonio all’italiana ricordava il giorno preciso di un evento dal paio di scarpe che indossava… – ma in questa foto avevo i baffoni e due bei favoriti ottocenteschi tipo Cavour, ergo sarà stato il biennio 95-96. Alle mie spalle il mitologico Casazzone: all’epoca aveva la faccia da bambinone, ancora oggi è così benchè le venuzze sulle gote si siano allargate pompando due oasi paonazze al posto delle guance. Grande Casazza: una sentinella premoderna in piena contemporaneità, un integerrimo custode dei bei vecchi tempi fatti di strette di mano maschie simili a morse, vigorose pacche sulle spalle, canzonacce da osteria e rutto libero. Accanto a me c’è Tonino. Il mio migliore amico degli anni di gioventù. Mi verrebbe da dire “il mio amico di sempre”, ma quel sempre si è interrotto da tanti anni: la vita è saggia e stronza, si condivide il sonno, la fame e il sorriso, poi all’improvviso si diventa estranei, sconosciuti, distanti come pianeti lontani.

Su Tonino avrei tanto da dire, altro che diario. Tante cose belle le tengo per me, altre sono consegnate alla storia di un’infanzia passata insieme dal grembiule ai primi peli, di un’adolescenza troia e critica vissuta dandosi man forte, di un liceo fitto di scoperte, ardori e carovane di provincia. Ci siamo voluti bene e ce ne vogliamo ancora, benchè ci dividano i chilometri, le vite e quel carico pesante di cose che non sappiamo più l’uno dell’altro perchè non ci si vede, non ci si sente, non ci si annusa da più di un decennio. Questa foto ha un significato speciale. Accarezziamo entrambi un cane, ovviamente chi sia e perchè sia lì mica lo ricordo… Se osservate bene c’è una striscia, quasi uno strappo, tra il mio braccio sinistro e il suo destro. Non è uno sbrego della carta fotografica, inutile tastarla per l’ennesima volta: è proprio una riga della foto, e non ricordo di averla vista prima. Ma i segni arrivano quando è il momento e ti parlano quando sei pronto. Mi piace interpretarlo come se fosse una catena, un laccio, un legame che avvinghia il mio polso con un orologio (guarda un po’: orologi non ne ho portati mai, nè allora nè ora…) all’attaccatura del suo braccio al petto. Un rapporto forte, immortalato in un territorio di confine, colto tra un prima e un dopo, tra una fine e un nuovo inizio. A pensarci bene, il nuovo libro che dovrei cominciare a scrivere parla proprio di questo.

Tonino 90

D.Z.