Si chiamava Gaetano.
Credo si chiami ancora così. Il cognome non l’ho mai saputo. Credo di non averlo mai chiesto, ai miei occhi avrebbe avuto un’identità più definita perdendo il suo alone epico e glorioso.
Gaetano era il mio mito di gioventù. Capellone baffuto occhiali scuri e scarpe da tennis, prestava a mio papà tante cassette rock che di fatto diventavano nostre dopo aver gonfiato di musica la macchina. Grazie a Gaetano ho conosciuto salvezza e dannazione. Quei nastri impregnati di energia diabolica mi hanno salvato dalle cose mortifere di provincia tipo famiglia studio scout azione cattolica e mi hanno dannato consegnandomi direttamente a satanasso. Peccato che lui, Gaetano, non l’abbia mai saputo. Satanasso sì invece, è ancora lì che ride sguaiato pensando all’intrusione del rockenrolle nella placida esistenza di un giovinetto.
Una cassetta importante che ci prestò era del 1987: antologia di successi dei Santana. In uno scorcio di quell’estate latin-rock passavamo le mattine a Occiano da mia nonna Elvira e la sera andavamo a dormire a Bellizzi da zia Elia. La colonna sonora del tragitto notturno era la cassetta di cui sopra.
Ricordo ancora la corrispondenza tra luoghi e canzoni, talmente perfetta da essere disegnata da un’intelligenza superiore. Dopo aver lasciato le verdi asperità dei Picentini per discendere nella monotona piana bellizzese, arrivava puntuale ‘Song of the Wind’. Il duello di chitarre volava sulle ali del vento e faceva scomparire cemento, caseggiati e auto in fila. Ultimo brano del lato B, chiudeva la cassetta e il viaggio. Quanto odiavo lo sportello della macchina e l’ombra del lampione. Prima o poi lo dirò a Gaetano.