Ecco il disco che non ti aspetti. Conosciamo bene il mondo Djam Karet, l’arte dell’improvvisazione sviluppata dalla band californiana in un trentennio di attività, l’imprevedibile atteggiamento di Gayle Ellett e soci di fronte alle possibilità offerte dalla jam, però il progetto Hillmen ha qualcosa in più. Il fattore “stupore”. I Djam Karet – e i singoli membri nei rispettivi progetti solisti o di gruppo – hanno fuso progressive e psichedelia, hard e ambient, folk-rock e world music, ma il passaggio al jazz mancava.
Con gli Hillmen Ellett passa all’organo hammond e al piano elettrico, Mike Murray resta alle chitarre e alla batteria arriva Peter Hillman: l’obiettivo è quello di resuscitare atmosfere e sensazioni fortemente anni ’60, legate agli organ trio del soul jazz ma anche alle prime apparizioni di jazz elettrico. Tra il Miles Davis di “In a silent way”, i Soft Machine concentrici del quarto disco e i seminali esperimenti di nomi come Gary Burton, Larry Coryell e Graham Bond, gli Hillmen sfoderano quattro pezzi che risalgono – come frammenti di un’unità – a una lunga seduta in studio a Topanga.
Nessun canovaccio di base, nessuna preventiva convenzione, la Free Improvisation parte e arriva senza codici, prediligendo un clima sornione e felpato, benchè “Summer days” scalpiti e incalzi. Sarebbe stato più facile concepire un lavoro di omaggio, gli Hillmen invece prendono spunto da quella dimensione “oracolare” tanto cara al Miles di fine Sixties e la rielaborano alla luce della propria personalità, come accade in “The fire burns”, che nell’andatura sensuale ma determinata rimanda alle lunghe calde notti di Frisco con Santana e Grateful Dead.
Un lavoro assai gradevole, di indole e tinta completamente diverse dal recente – benchè parallelo e complementare – progetto elettronico di Henderson e Oken Jr.
D.Z.