Che cosa rende così peculiare, distintiva, unica, la discografia di Robin Taylor? La continuità concettuale. La stessa omogeneità di fondo, la stessa provenienza da un’origine comune che alimentava l’opus zappiano, rivive nella poliedrica opera del chitarrista danese, che arriva alla trentesima uscita. Con alcuni distinguo: i dischi a nome Robin Taylor, nulla più che album solisti, sono assai diversi da quelli del progetto Universe, che trova in “Worn Out” un ulteriore tassello.
Se nel Free Universe la componente improvvisativa è totale, senza compromessi, concettualmente rigorosa, nel Taylor’s Universe ci sono un’idea di gruppo ben strutturata (stavolta con una corposa sezione fiati guidata dall’inossidabile Karsten Vogel), una linea guida dettata dall’autore, un’attenzione alla costruzione in studio. Non è un caso che per “Worn Out” siano occorsi sei mesi di registrazione, e il risultato – come sempre ottimo – lo dimostra. L’universo tayloriano sa essere citazionista con giudizio, e dietro a titoli come “Floating Rats” e “Sergeant Pepperoni” si celano riferimenti a Zappa e Beatles, ben stemperati in una progettualità sonora che, disco dopo disco, si è consolidata tra art-rock, post-fusion e musica colta.
In particolare il primo pezzo citato, nel suo svilupparsi seguendo un’articolazione di cellule jazz e sympho-rock, ribadisce il naturale eclettismo della scrittura tayloriana, stavolta più seriosa e severa, come si evince dalla stessa “Munich”. Taylor si fa da parte e lascia il solismo a Jon Hemmersam (suo il sound tagliente e aspro di “Imaginary Church”), i tre fiatisti sono in ottima forma (in particolare il trombettista Hugh Steinmetz) e impreziosiscono numerosi passaggi, “Jens in Afganistan” è la riprova dell’amore per il collage sonoro, per niente compilativo e statico.
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D.Z.