I simboli. La storia della popular music ne è costellata: una pioggia di rinvii e rimandi, collegamenti e congiunzioni. Se guardiamo una mucca pensiamo subito ai Pink Floyd. Se però ne vediamo una mandria, in lento e polveroso incedere, proprio come quella fotografata sulla copertina di Un nome che sia vento, ci viene in mente l'Africa. Quell'Africa. Quella di Alì Farka Tourè che dialogava con John Lee Hooker spiegandogli che l'essenza del blues era proprio tutta lì, in quel passo scampanante. Un incredibile fascino che ha contagiato Paolo Andreoni e che lo ha stimolato in questo secondo album, fusione in filigrana tra la canzone d'autore piegata verso l'ambiente indie e le suggestioni offerte dal blues sahariano, quello di Tinariwen, Terakaft e Tamikrest. Un bell'album che profuma di sabbia e De André, di meditazioni elettriche e mal d'Africa. Evocativo.
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Corto-circuito spazio temporale. Dall'Africa al grigiore milanese. Grigiore che nei Cacao era del tutto, ora e sempre, assente. Dire che qualcuno li aveva definiti “gli XTC meneghini”, secondo altri erano “i Talking Heads lombardi”, e oggi sono in pochi a ricordarli. Nessun problema, non è mai troppo tardi per rimediare e giunge in soccorso questo gustoso box della Vololibero: Cacao 1&2. Il primo album del 1981 è accompagnato da un secondo disco di inediti registrati qua e là, fino all'ottobre del 2011. Posso dirlo? Ma sì: una delle migliori realtà del rock tricolore all'indomani dei trionfi della PFM e della fine degli Area. E dire che di prog non c'è nulla, nonostante Dario Guidotti fosse stato flautista dei Jumbo. E invece i Cacao macinano lesti blues e post-punk, psychobilly e funky bianco, new wave e fusion furba, pompando ironia e disillusione come pochi altri all'epoca facevano. Deliziosi.
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Produttore questo sconosciuto. Quando si ragiona sulle cause della decadenza musicale odierna, non ci si sofferma mai abbastanza su quanto la scomparsa dei produttori artistici sia stata decisiva. Pensiamo al rock italiano, a figure come Fabi, Colombini, Carrara e Pirelli, lo stesso Rustici. Figure determinanti per la sorte di un gruppo, e potrebbe essere proprio il caso dei Six Tight, che cerca il suo punto di forza in un rock di confine, tale per le diverse estrazioni dei membri. Al sestetto viterbese questa figura esterna è mancata (ma è quel che capita alla quasi totalità dei gruppi emergenti…) e la tracklist di Tutto quello che so ne risente. I Six Tight affrontano un vasto “arco costituzionale rock”, dagli Stones ai Nirvana passando per i Cranberries, con cognizione di causa ma con indecisione, senza portare in studio l'energia vibrante che li caratterizza dal vivo. Voce femminile e ben tre chitarre in line-up sono una potenzialità molto interessante, da valorizzare per bene: cosa che accade in qualche brano (Ora e per sempre e Now ad esempio) ma non sempre. In sei, stretti stretti: un circolo chiuso di ottime intenzioni.
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D.Z.