Li avevamo lasciati a “The Trip”: una suite di jam rock che ha rappresentato il momento più critico della lunga fase di stallo dei Djam Karet. Uno stallo per modo di dire, visto che la longeva band americana ha conservato un livello creativo costantemente elevato, ma è anche vero che negli ultimi anni Gayle Ellett e soci sono stati piuttosto avari di guizzi geniali e di sorprendenti affreschi sonori come in passato. “Regenerator 3017”, probabilmente per l’approccio celebrativo, punta a risollevarne le sorti e a rievocare i migliori momenti di un’autentica istituzione dell’underground internazionale.

1984-2014: trent’anni fa, in quel di Topanga, CA, i Djam Karet avviavano la loro lunga storia. “Regenerator 3017” festeggia il trentennale, è il diciassettesimo disco e la rigenerazione alla quale allude il titolo arriva attraverso la valorizzazione dell’originario metodo compositivo e l’organico classico al completo – Ellett/Oken Jr./Murray/Henderson/Osborne. Il disco è stato completamente improvvisato in studio, senza successive manipolazioni, il sound dei sette pezzi è dichiaratamente debitore dell’epoca storica 60/70 e in particolare di una cultura di serenità acida, quasi l’opposto del concitato calderone di idee alle quali i DK ci hanno abituato.

L’apertura assegnata a “Prince of the Inland Empire”, nella sua distensione psichedelica, nell’incedere sicuro ma non frenetico, rimanda al panorama rock al quale la band si è sempre abbeverata. Lanciando la direzione dell’intero disco, il brano segna il contesto nel quale operano i DK del trentennale: un impasto corposo e fragrante di jazz-rock (vedi anche “Living in the future past”, per quanto il mellotron sposti il baricentro), tentazioni progressive e rifrazioni lisergiche, che convince appieno quando tutto si regge in equilibrio tra grinta e pacatezza. Quando invece la band indugia nella lentezza – vedi il blues cosmico di “Lost dreams” o l’exploit floydiano di “Empty house” – il rimpianto dei vecchi DK si fa sentire…

I DK hanno isolato i principi della componente ambient/elettronica, dunque l’approccio più meditativo e visionario, applicandoli a un contesto rock settantiano: è il caso di “Desert Varnish”, episodio di space rock gradevole, tra mestiere e zampate di classe. Notevole la distribuzione degli assoli, che indica il grado raggiunto di interplay e affinità, assolutamente invidiabile; dall’altra parte resta la sensazione di incompiutezza, come se a questi DK mancassero quei colpi di scena che rendevano eccezionali album come “The ritual continues” o “The Devouring”. Disco piacevole, celebrazione riuscita solo a metà: buon trentennale Djam Karet!

www.djamkaret.com

D.Z.