Che bravi i Believe. Conterà qualcosa, nella storia di un gruppo, il proseguire con costanza e determinazione, il puntare a un obiettivo alto e perseguirlo con tenacia? Nel caso della band polacca la durata ha il suo ruolo, tanto da premiare questo nuovo album con un valore aggiunto. I Believe hanno quasi dieci anni di militanza e debuttarono nel 2006 con “Hope to see another day”, album che consegnava al pubblico new prog una sterzata rispetto alla precedente esperienza Collage: il chitarrista Mirek Gil – tuttora anima e mente della band – lanciava un art-rock diretto e immediato, e su quella falsariga ha sviluppato i successivi lavori.

“The warmest sun in winter” segue il cambiamento di “World is round” (2010), il disco che confermava il nuovo cantante Karol Wróblewski  e un’adesione ancora più convinta agli stilemi Porcupine Tree/Anathema. Questo quinto album non cambia le carte in tavola e ribadisce quel tipo di art-rock, rafforzato da un’impostazione concettuale sfumata e malinconica (la fine di un’antica amicizia, le memorie e le speranze), decisamente in linea con le atmosfere care ai Believe. Non solo: è confermata la dimensione di gruppo dei Believe, non più una creatura di Gil, che condivide con i colleghi l’ampia scrittura dell’opera.

Pezzi sontuosi come “Beginners”, “Works” e la toccante “Please go home” (con il violino di Satomi) si muovono tra larghe durate, hackettismi ricchi di pathos e squarci melodici nella vena cara ai Queensryche di “Empire”. E’ proprio il ruolo del cantante a colpire: non una voce personale e memorabile, ma adatta e credibile nel ruolo del narratore di stati d’animo complessi. Peccato che non ci sia quel quid, quel graffio, quella zampata che sollevi l’album dalla medietas – per quanto “aurea”: brani come “Unborn/Turn around” (in parte anche il lungo episodio finale “Heartless land”) soffrono proprio di questa piattezza.

Un ritorno gradito, un disco piacevole, ma da una band del genere ci si aspettava uno scatto in avanti.

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D.Z.