Dove va oggi il progressive metal? Domanda difficile: il genere ha assunto e perso la sua identità nel giro di qualche anno, affermandosi come rilettura possente e elettrica di certo rock sinfonico, ma subito tramutandosi in passerella per virtuosi e non in trampolino di lancio per la fantasia e l’imprevisto. Chi oggi si cimenta con questo modulo cerca il più possibile di personalizzare: puntando sulle contaminazioni nu-metal, jazz-fusion, postcore o art-rock.

Gli Azure Agony simboleggiano in pieno questa ricerca del nuovo, pur aderendo con convinzione alla scuola Dream Theater. Il secondo album della formazione friulana nè è la nuova prova, a maggior ragione dopo il cambio d’organico che vede la band diventare quintetto con l’arrivo del vocalist Federico Ahrens. “India” intreccia passato e presente, componenti classiche heavy e prog, mostrando una faccia pulita e al tempo stesso sfrontata. Se il riff corposo che apre “Twin Babel” ribadisce l’appartenenza hard, gli sviluppi dell’articolata title-track e di “Forever Blind”, o l’ariosa melodia di “My last time on earth” rinviano a un immaginario musicale ampio, per certi versi sorprendente.

“Private Fears” e “A man that no longer is” rilanciano una band affilata, scattante, con un feeling appassionato tra i vari membri che evita cali di tensione o falle nella tenuta d’insieme. Melodici, incisivi ma in alcuni punti involuti, gli Azure Agony si confermano tra le più interessanti realtà europee heavy prog.

 

http://www.azureagony.com

 

D.Z.