E qualcosa di nuovo giunse da Napoli. Intendiamoci, nulla di rivoluzionario ma sicuramente una deviazione, uno scarto rispetto all'ancora dominante fusion a metà strada tra Wayne Shorter e Pino Daniele, vincolata a stilemi demodè e alla reiterazione incessante di quel “chesta città” che ammorba larga parte dei testi partenopei. La diversità di Amigdala si nota subito nel fattore “genetico”: il chitarrista Marco Gesualdi e il bassista Vittorio Nicoletti provengono dai 666, nome storico della “Vesuwave”, movimento che avrebbe meritato maggiore visibilità vista l'originalità e il respiro internazionale.
Ma c'è di più: dalla new wave del passato il neonato quintetto si orienta a un incontro tra progressive contemporaneo e jazz-rock, tra richiami espliciti a modelli e riferimenti e sprazzi di personalità tutti da approfondire. Tanto per intenderci: se gli Yes usavano “L'uccello di fuoco” come solenne overture per i loro altisonanti concerti, gli Amigdala operano con fare più “sottile”, se non enigmatico, inserendo la celebre melodia stravinskjiana a mo' di cellula all'interno di un brano incisivo e immediato come “Opere Omus”.
Il “funky punky rock jazz” annunciato nella title-track è ironico e iconico: biglietto da visita e ambito operativo che tocca sia episodi di fusion elegante (“Intifada” e “No one”) sia i confini del progressive (“29.5”). La versione della “Mela di Odessa”, con un sorprendente Lino Vairetti nel ruolo stratosiano, evita la cover/copia conforme, il recupero di “Macumba” dei 666 con il vecchio sodale Maurizio Capone si muove nella stessa direzione.
Nonostante alcuni momenti più convenzionali e prevedibili, il progetto è curato, attento e ben organizzato, ha sostanza senza andare mai sopra le righe. Un piacevole rock-jazz per una band che ha qualcosa da dire.
D.Z.