Oramai attivi da anni, i Reverie consegnano all’ascoltatore una delle più personali prove di interpretazione progressive. La formazione guidata da Valerio Vado ha mutato pelle nel corso del tempo conservando intatti alcuni tratti somatici, divenuti poi chiavi di volta dell’intera proposta artistica. Pensiamo all’inclinazione per l’acustico e l’arrangiamento colto, al collegamento con l’arte e la letteratura, a quella leggerezza che non è mai assenza di senso e direzione ma levità ed eleganza.
“Revado” è probabilmente il disco più importante della band milanese, quello che riassume gli obiettivi e le intenzioni di una carriera, ma anche quello che lancia un’ìpotesi nuova di lavoro. A quattro anni di distanza dal piacevole “Shakespeare, la donna, il sogno”, i Reverie tornano con un progetto bilingue, sottolineando con forza l’uso dell’esperanto non tanto come possibilità sperimentale, ma come adesione “ideologica” a una forma compositiva che superi steccati e confini tra generi.
Disco di viaggi e immagini, di evocazioni e sfumature, di percorsi nuovi e antiche memorie, “Revado” propone una sequenza di ballate ai confini della musica da camera, raccolte e “aristocratiche” anche se passionali nel respiro strumentale e persino nel riff (“La tradezerta komercisto” è uno dei manifesti del disco, idem “Danco de l’ maro” e “Koto kaj lumo”). A cavallo tra Pentangle, Miriodor e Penguin Café Orchestra, i Reverie si muovono tra eccellenti impasti fiatistici (“Plurmiljaraj knaboy”), puntatine elettriche e frippiane (“Arkana belulino”) e reminiscenze più affini al prog (“Plurestantaj memoroj”, l’estesa “Silkovojo”).
Nonostante alcuni aspetti siano ancora da sistemare (certe impostazioni vocali, gli sviluppi a volte prolissi, qualche incertezza), il progetto è assai seducente. Bentornati.
D.Z.