17 anni. Un lunghissimo periodo di assenza per i Seasons Of Time, che debuttarono nel 1997 con “Behind the mirror” per poi rientrare nei ranghi, in silenzio e in attesa di avere qualcosa di nuovo da dire. Sarà per questa lunga vacatio che il loro nuovo “Closed doors to open plains” si presenta abbondante e pieno di musica: sedici pezzi sono un’enormità per un album prog, ma una possibile normalità per un disco che guarda a modelli più contigui alla forma-canzone come i Pink Floyd, i Marillion di Steve Hogarth, certi Eloy e Alan Parsons.
Bastano poche battute di “An overture in my head” – basso e chitarra pungenti, suoni concreti e rumori d’ambiente – per andare dritti alle atmosfere di “The wall”, la voce watersiana (ma senza il carisma e la severità del maestro…) di Malte Twarloh accentua la sensazione di deja-vu, per quanto brani come “Someone” e “A step ahead behind”, nel loro impeto rock e nella grandiosità degli arrangiamenti rievochino anche il rock pomposo caro ai Saga. Si vola dal nebuloso al graffiante, dal malinconico-metafisico al sanguigno, con il trait d’union di questa concretezza parsonsiana che evita prolissità anche quando i pezzi non sono per niente convincenti per ispirazione e presa.
La fitta presenza di brani è da leggere come una sequenza di episodi di una suite, vista la continuità di atmosfere e tematiche: si alternano brillanti strumentali come “Bite the bullet” (episodi prog-rock classici che alla band di Brema riescono piuttosto bene) a pesanti excursus cantati (es. “Closing doors”) che risultano la parte più eccessiva dell’opera, contrariamente ai momenti new prog ipermelodici ma leggeri e poco impegnativi (es. “You’re not needed anymore”). Album suggerito ai completisti del rock tedesco, ma non ad altri.
D.Z.