Probabilmente Iacampo non lo avrei mai sentito neanche nominare, se non fosse stato per Terje Nordgarden. L’idea di aprire il suo nuovo album Dieci con una versione elettrizzante e intensa di Non è la California – scritta, per l’appunto, da Marco Iacampo – mi ha svoltato, nell’ordine: puntata in radio, buchi tra una cosa e l’altra al pc da riempire con un pezzo al volo, colonna sonora di un lungo viaggio in auto con modalità repeat a tutto spiano, consiglio per moglie a caccia di pezzi emozionanti. Al di là del felice attacco d’apertura, l’idea tutta del disco – saggiamente prodotto da Cesare Basile – è vincente: prendete un norvegese innamorato dell’Italia, trasferitosi qui ma un pizzico dubbioso e riservato, quanto basta per non fargli perdere l’accento, e dategli alcuni tra i più bei pezzi del mondo indie degli ultimi anni. Risultato eccellente: Basile, Donà, Parente, Benvegnù e anche il compianto Claudio Rocchi, tutti in fila, ricantati e risuonati con classe e intelligenza.
www.nordgarden.info
Intermezzo pissichedelico assai. Talmente pissichedelico che da intermezzo è diventato un macigno inamovibile nelle mie recenti playlist, addirittura un convitato di pietra nell’immancabile top 20 di fine anno. E dire che ai primi ascolti ero rimasto un po’ perplesso, non ricordo quante volte mi sono chiesto se i Julie’s Haircut si fossero davvero spostati troppo in avanti, e la risposta è arrivata a mo’ di monetina tintinnante dell’I Ching. Ashram Equinox, mi ha detto l’oracolo sondandomi gli abissi tremolanti e impauriti da tale excursus lisergico, è un signor disco: lascia a bocca aperta il fan medio dell’alternative/indie italiano che lo ha ascoltato perchè certe cose si devono fare sennò XL piange, scatena sorrisi a profusione nei vecchi tromboni come il sottoscritto che di Can, Tangerine Dream, Motorpsycho e Kinski si nutrono quotidianamente. E’ lontano il cut & paste dal sapore jazz-rock alla Teo Macero di After dark, my sweet, la band srotola una bobina vintage e si diverte con sinfonie elettroniche, rallentamenti, echi e riverberi degni del biennio 67-69. Eccellente.
www.julieshaircut.com
Carlo Lomanto intitola il suo nuovo lp Dreams ma non ha l’inflessione nordeuropea che fa sognante agrodolce ed esotico al contrario, non gioca con sfasature acide da paradisi artificiali e rimette al centro la musica. Nuda e cruda. Un paio d’anni fa una bella e limpida rilettura del miglior patrimonio beatlesiano, ora un passo in avanti tra rifacimenti e inediti: il vocalist napoletano – che stavolta si destreggia anche tra synth e chitarre – immagina un territorio di frontiera, una duty free area in cui jazz, rock, pop e ricerca possano convivere pacificamente. Con Giulio Martino (sax) e Giuseppe La Pusata (batteria), Lomanto propone un art-jazz che si affranca dai vincoli della cover (Peter Gabriel, Bobby McFerrin, Horace Silver e Steve Kuhn gli omaggiati) e mostra un profilo postmoderno, sfuggente, sinuoso, per niente gigionesco e poco partenopeo. Red Ground e Dreams accennano, alludono e sbirciano, eppure la dicono lunga sulla preparazione e la credibilità dell’autore. Affascinante.
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D.Z.