Le beibe beibe a gambe spalancate care ai Led Zeppelin, i pruriti e gli sberleffi di casa Zappa, i diavolacci su di giri a zonzo con i Black Sabbath, i mattoni in caduta sui Pink Floyd, le strade di tuono per raggiungere Springsteen: i King Crimson sono davvero lontani.
Uomini schizoidi, divinità marine, risvegli di principi e isole lontane, lingue di allodola, grandi ingannatori e incubi rossi, chiacchiere da elefante, nevrotiche e uomini modello, dinosauri, luci in costruzione e curve pericolose. Altro che musica leggera. Qui ci sono anomalie dentro altre anomalie, una matrioska rock tutta da smontare.
Se il progressive rappresenta una grande “deviazione” nella storia popular, i King Crimson – che del prog sono stati gli artefici e tuttora la massima incarnazione – sono una cellula impazzita a dir poco sorprendente. Hanno inventato un genere, se ne sono distaccati senza abbracciare i suoi opposti, hanno un padre-padrone-fondatore-demiurgo senza il quale non esisterebbero, ma i testi delle varie incarnazioni del Re Cremisi sono opera di personalità esterne come Peter Sinfield e Richard Palmer-James, o di un alter ego conflittuale e pacifico come Adrian Belew.
Un gruppo/progetto che cammina tra esoterismo e humour, letterature e surrealtà, razionalismo e follia, allegorie e clare loqui. Un’isola nel mare magno del rock, una piccola unità collettiva dove si parla con il vento e si attende il ritorno di me, Neal e Jack.