Come si traduce in linguaggio progressive lo stereotipo – molto cinematografico – dell’americano “awanagana”, faccione squadrato, sorriso ammiccante e aria piaciona da simpatica canaglia? Basta ascoltare Rocket Scientist e Erik Norlander, le produzioni 10T e PRR, il metal prog e certi Spock’s Beard, a volte i Magellan, per rendersene conto: prog-rock muscolare e diretto, che talora estremizza certe componenti radiofoniche con la consueta ammirazione per Yes e Gentle Giant. E’ anche il caso dei Little Atlas.

La formazione statunitense guidata dal tastierista e vocalist Steve Katsikas torna dopo una pausa di sei anni: nel 2007 il terzo album “Hollow” confermava la miscela di art-rock e power-ballads, “Automatic Day” segue quella scia senza perplessità. Il quartetto di Miami ha le idee chiare e non mostra tentennamenti: “Oort”, “Apathy” e la metallosa “Illusion of control” sono gli episodi più risoluti di un disco da “prendere o lasciare”, che non ammette eccezioni alla regola del prog melodico gonfio e iper arrangiato. Il batterista Mark Whobrey contribuisce alla parte più “maschia” dell’operazione, il frequente alternare acustico ed elettrico da parte del chitarrista Roy Strattman garantisce ariosità e ganci radiofonici (anche nella crimsoniana “Twin of Ares”), i pezzi non eccedono nelle lunghe durate, talvolta sterzano in direzione Porcupine Tree ma spesso risultano statici e prolissi.

Per quanto simile ai tre predecessori, “Automatic Day” è probabilmente la miglior prova dei Little Atlas: scontati, prevedibili e convenzionali, ma nel loro campo ineccepibili.

www.littleatlas.com

D.Z.