“Orsa maggiore” è il miglior disco dei Pane. Fa uno strano effetto scriverlo così, ex abrupto, pensando anche a un panorama discografico così avido di “ottimi e migliori dischi”. Ma i Pane sono in crescita da sempre, da quando fecero capolino, sommessamente, durante gli anni ’90, lasciando in chi li ascoltava una sensazione straniante, di misterioso benessere, di sanante lacerazione, di unità e raccoglimento.
“Orsa maggiore” è il miglior disco della formazione romana perchè assorbe il meglio dei precedenti e al tempo stesso segna un passo in avanti. Dal debutto omonimo del 2003 recupera una verve strumentale impetuosa, veemente, figlia di quella cultura rock che non ha mai innervato il sound del gruppo se non in termini di impatto, epicità e urgenza. Da “Tutta la dolcezza ai vermi” (2008) i Pane prendono la ricercatezza lirica, l’arrangiamento più sofisticato, il lavoro sul rapporto tra parola e voce.
“Orsa maggiore” nasce “con sana e robusta costituzione” perchè agli eccellenti risultati dei predecessori aggiunge un’altra componente: quella del live, del taglio frontale, alla ricerca di un confine sempre più labile tra concerto e studio. Mai come in questo album il vocalist Claudio Orlandi è travolgente e intenso, tanto da evitare in toto momenti di retorica autoindulgente che, negli adattamenti dei testi di Bufalino, Majakovski e Victor Cavallo, avrebbero potuto avere la meglio.
“Orsa maggiore” viaggia tra tensione e liberazione, tra dolci oasi acustiche e raptus strazianti, superando gli stereotipi della forma-canzone in favore di una struttura che, anche per colori e senso del dramma, riporta al miglior Banco (vedi “Gocce”). “L’umore”, “Cavallo”, la title-track e “Samaria” sono tra i migliori pezzi dei Pane ma anche i momenti più alti che la musica italiana degli ultimi anni abbia partorito. Se proprio la volete una definizione, progressive-folk potrebbe essere una di quelle più vicine alla poetica della band.
D.Z.