Ieri sera con una splendida Satisfaction nella recente versione di Paolo Fresu (procuratevi Desertico, suo ultimo lp col Devil Quartet) ho chiuso la stagione 2012/13 di Rock City Nights. Mi mancherà Radio Città. Mi mancherà il passeggio serale che da casa mia taglia in due Benevento e arriva dritto dritto di fronte al microfono. Mi mancherà il sapore di musica che ti esplode nelle cuffie mentre fuori, nottetempo, tutto tace e i diavoli elettrici sono appostati agli angoli della città per fare buh! ai placidi sonni dei borghesi. Mi mancheranno le radiococcole con il direttore – fighissimo dei fighissimi, esimio all over again. Tornerò presto in radio, a settembre già avrò le prime scalette pronte, i primi giorni di ottobre le ultime interviste concordate e poi si partirà: rock a tutto spiano, altro che autunno caldo.
Questa recente sequenza stagionale volata via come un pezzo dei Ramones, che è finito e sei ancora lì tutto inebetito, è stata molto importante: accanto ai grandi ascolti, alle playlist sempre più accanite, alle furenti scritture rock divorate e commentate on air, ho riscoperto la mia vena di lettore onnivoro, smodato, dispendioso, affamato di qualsiasi libro sia apparso sulla faccia della terra. Fatta eccezione per le aerofagie di Fabio Volo e il pollice verde di Luca Sardella. Non leggevo così tanto – in termini di intensità, di quantità di titoli, di frenesia nell'apprendimento, di varietà dei temi – dai tempi antichi della mia militanza vegetariana.
Non credo ci sia stato un nesso tra il non mangiare carne e l'abbondanza di lettura, tra l'altro il De esu carnium di Plutarco lo avrei letto più avanti, dopo essere rientrato nel regno della braciola. Se penso a quando ero vegetariano la prima cosa che mi torna in mente è una sensazione strana: di ascesi. Diavoli elettrici a riposo e serena, limpida, sterminata (a volte ghiotta come il panino con la salsiccia della sagra) solitudine. Un'ascesi volontaria, non radicale: era come villeggiare nel verde di un'isola poco distante dalla riva, lontano ma non troppo dal formicolio della terraferma, aggiornato con discrezione sulle novità al di là dei moli, protetto quanto basta dalle mode mangerecce del continente. Poi arriva una chiacchiera, una curiosità, una provocazione, una critica stupida, una sensazione di stanchezza e senza accorgertene ti ritrovi con l'isola alle spalle e uno spiedino in bocca.
Oggi per me l'ascesi è altro. E' assaporare l'esperienza metafisica anche nel baccano di quella litigiosa e siliconata riunione di condominio che è diventata la vita moderna, soprattutto in questo culo di provincia dove vivo. Una roba alla quale non sapevo dare nome, che non riuscivo a descrivere, che ho scoperto spiegata con grazia e levità in Archetipi di Elémire Zolla. Sant'uomo. E' un'esperienza che, quando mi nutrivo solo di ortaggi, mi travolse in un caldo pomeriggio di luglio, prima metà anni '90. Letters From Home di Pat Metheny sul piatto, Cent'anni di solitudine di Garcia Marquez tra le mani, persiane abbassate, musica e lettura insieme, un'intera giornata e anche di più, alzandomi solo per girare il disco, tutto in uno, uno in tutto. La stessa cosa ieri sera, come ogni sera in radio: 21.30, sigla di Springsteen, “buonasera benvenuti a Rock City Nights” e tutto un vortice. Tutto in uno, uno in tutto. Tornerò presto direttore.