Il classico suono Black Widow. In tempi di indifferenziazione, di appiattimento e omologazione, che una indie label – autenticamente indie, va sottolineato… – come BWR sia alfiera di un sound così riconoscibile e peculiare è cosa davvero importante. Gli Psycho Praxis non scelgono a caso la scuderia in cui entrare per il loro debutto, che si propone come classico istantaneo di un certo panorama hard-prog caro all’etichetta genovese.
A cavallo tra Areknames, Wicked Minds e Orne, la giovane band bresciana presenta sei ampi brani che spaziano tra il progressive aspro e spigoloso alla Van Der Graaf, certe deviazioni esoteriche care ad Antonius Rex e quel rovente impasto di flauti, chitarre pungenti e hammond tipico dell’underground anni ’60/’70. In particolare a quest’ultimo ambiente si ricollega il quintetto, che interpreta la lezione prog in una chiave visionaria e psichedelica (vedi la cangiante rock ballad floydiana “Hoodlums”), rievocando camere d’eco, riverberi ed effetti cari alla concezione del disco come esperienza sinestetica; non a caso anche la scelta grafica ribadisce questa ipotesi concettuale.
Il trittico programmatico composto dall’opening track “Privileged Station” e dalle febbrili “Black Crow” e “Noon” sintetizza perfettamente le credenziali degli Psycho Praxis. Come spesso accade alle formazioni BWR, all’assenza di una personalità forte e originale corrisponde però un’idea caratterizzante: in questo caso l’alternanza di ambienti e atmosfere, ad esempio in “P.S.M.” (dove si susseguono segmenti più distesi e schegge graffianti) oppure in “Awareness” (dove spunta fuori un organo acido direttamente da Canterbury).
“Echoes from the deep” sconta una fisionomia ancora debole ma è un’opera prima decisa, convinta nella collocazione stilistica, per alcuni versi sorprendente.
D.Z.