Quando un disco profuma di America. Non quella altisonante ed epica di Springsteen nè quella generazionale degli assalti al cielo di CSNY. Quella più oscura, sottile, in filigrana tra demoni e nottate. Per il suo secondo album Perlè – al secolo Gianluigi Scamperle, ex Kasanova – ci va negli States, recluta John Agnello e uno stuolo di musicisti (Gramentieri, Sapignoli, Ferrario) che stars & stripes le respirano. Il risultato è Quanto tempo resta, album sabbioso e laneganiano, che scarta e dribbla fino a non poter più rimandare l’appuntamento con il tempo, grande protagonista dell’opera. Rock d’oltreoceano, punteggiato di stelle e deserti.

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Di chi è la musica? Di chi la scrive, di chi la suona, se poi parliamo di classici che sfidano il tempo è anche di chi la ascolta e di chi la interpreta. Patrizia Cirulli si è confrontata con E già, il più misterioso e snobbato dei dischi di Lucio Battisti. Un confronto giocato tutto sul rinnovamento e sul faccia a faccia: una sfida verso un album che fu sfida al pop corrente nel 1982. Ma se nel primo lp battistiano senza Mogol dominava un synth-pop secco e lineare, in Qualcosa che vale Patrizia rilancia circondandosi di ottimi chitarristi: Mesolella, Bonfanti, Venuti, Pacifico, Marrale e altri che fanno rinascere un album difficile, camminando con passo elegante tra folk, blues, jazz afterhours e nuova canzone.

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Che simpatico Matteo Toni. Un po’ Black Keys, un po’ Battisti, un po’ Ben Harper e un po’ Xavier Rudd, si presenta accompagnato da un percussionista, vestito da tennista su un tappeto di palline gialle. Ma soprattutto si nota per la sua immagine dal vivo: scalzo, footdrum ai piedi e chitarra Weissenborn sulle ginocchia, poche balle e si suona. Toni viene da esperienze di gruppo e conosce bene possibilità e limiti di una one man-band: folk-blues distorto ma non fragoroso alla Honkeyfinger per intenderci, con qualche fuga pop che non stona affatto. Santa pace è un bel risultato, peccato che manchi “il” pezzo. Da seguire.

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D.Z.