Quando si vive nella musica, quando la propria vita è scandita dalle uscite discografiche e dai concerti, può capitare che una reunion o un comeback scatenino strani meccanismi spaziotemporali. Un nuovo disco degli Echolyn, “la” formazione progressive dell’ultimo ventennio, ha questo potere, soprattutto dopo sette anni di silenzio. Era il 2005 quando gli Echolyn si ripresentarono con un album che il tempo ha consentito di rivalutare: quel “The end is beautiful” che, seguito al grande affresco sinfonico di “Mei” (il gradito ritorno al progressive tipico della band di West Point), ipotizzò una congiunzione tra l’art rock che li aveva resi famosi e l’intrisuone nell’Americana – che spiazzò tutti – di “Cowboy poems free”.
E oggi? Dopo sette anni di silenzio gli Echolyn riappaiono con un doppio album, il settimo di una carriera importante: niente titolo, una finestra in copertina, otto brani di varia durata e differente intensità espressiva, al centro una personalità ancora forte ma non più inossidabile, con rughe e acciacchi. Figlio di una gestazione piuttosto lunga, di un labor limae che ha appesantito la freschezza originaria, “echolyn” rivela – probabilmente per la prima volta nella storia del quintetto – una certa stanchezza, o meglio una mancata sintesi. Se il segreto storico degli Echolyn era la convivenza tra un’anima melodica e un piglio funambolico, insieme all’abilità di creare sequenze di guizzi geniali all’interno di una scrittura ampia e compiuta, stavolta questa peculiarità si trova solo in alcuni episodi e non nell’intera operazione.
I brani che aprono e chiudono il disco – “Island” (uno dei momenti più eccitanti dell’lp) e “The cardinal and I” – sono accomunati anche dall’incisivo opening riff che rimanda ad una forma ad anello e rappresentano le fasi più aderenti all’estetica prog. Se poi si salta a brani più “sensuali” – sicuramente usciti dalla penna di Brett Kull – come “Locust to Bethlehem” e “Speaking in Lampblack” (trascinante l’idea melodica con quell'”Everything comes around at once again” che entra in testa e non se ne va più…), la scrittura per archi va a braccetto con richiami soul-blues e alternative rock.
“echolyn” è un signor disco, suonato e prodotto con impeccabile professionalità, ma conoscendo gli standard abituali degli Echolyn la sensazione dominante è quella di un lavoro incompiuto, nel quale le due anime forti – Kull da un lato, Chris Buzby dall’altro – non abbiano trovato la giusta armonizzazione. Brani come al solito eccellenti fanno risaltare maggiormente il clima un po’ sbiadito di altri ma la classe, la sensibilità e i muscoli abitano sempre in casa Echolyn, con un pizzico di fantasia in meno.
D.Z.