Quant’è difficile essere originali. Se poi abiti in provincia, le cose si mettono maluccio, Piero Chiara e Paolo Conte ne sapevano qualcosa. Solo qui puoi trovare un sorprendente bestiario umano, un aberrante calendario di mostruosità giustificate dall’esigenza insopprimibile di salire alla ribalta, di farsi notare ad ogni costo, di guadagnare il sospirato attimo di celebrità. Il cugino di mio padre ha chiamato il primo figlio Alfa. Lucido ha chiamato il suo cane Tredici. Il Figo usa il titolo del suo blog a mo’ di “minchia!” ogni qual volta esclama per lo stupore o la gioia. Piccolo Vincent fu incoronato re dalle tavolata bevendo per tre volte di seguito del fetente aglianico di serie b in un paparulo ammunnato. Sciosciapatane (lo so, lo so, ognuno di voi pagherebbe oro per sapere perchè il tizio ha sto soprannome) soleva usare la leva del cambio della sua zozzonissima panda bianca per infilarvi dei gustosi taralli all’olio.
Anche io ho partecipato alle olimpiadi della minchiaggine cercando di essere originale, e non mi riferisco alla prevedibile banalità di capelli lunghi, barbone, vestiario zingaresco e stivaletti consumati col pollicione fuori. Una mattina comprai un barilotto di birra Henninger (che gli dei del malto abbiano pietà di me), la scolai girando avanti e indietro sul viale, il pomeriggio scoprii le gioie segrete della gastrite. Sul cruscotto della mia fiammante Panda rossa spalmai un litro di colloso attack per sistemare i pupazzetti usciti dall’ovetto Kinder. A corto di ispirazione, mi feci anche una potentissima canna di maggiorana e timo, se la memoria non mi inganna in compagnia del Casazzone. E per non farci mancare niente, compresa la cura del fisico, nella premiata palestra Atlante tra un addominale e un bicipite azzannavamo famelici pane, formaggio, capocollo e mandarini. Ricordo ancora il profumo.
Provincia maledetta. Anche ascoltare la musica qui seguiva altri rituali, camminava in altre direzioni. Come dimenticare gli scambi di cassette, consegnate con circospezione, guardandosi intorno con fare carbonaro. Sarà che il buon rock è meglio di un potente allucinogeno, sarà che i Motorhead sotto sotto puzzano davvero, sarà che passare all’amichetto con le toppe dei Damned una cassettina dei DRI in cambio dei Vendetta è roba degna di patibolo. Ricordo il rito inaugurale dell’autoradio nella mia Panda, se non erro agosto 1995: piena zeppa di quattro cristoni felici e ululanti tipo il Valhalla di Immigrant song, sprintava nelle campagne arse di Coppacorte mentre pompava dalle casse i Whitesnake di Slip of the tongue e gli Ibis del 1974. Il brigadiere ci fermò, ci perquisì e rinvenne a terra un pezzo di carta stagnola contenente residui di panino con frittata, ma questa è un’altra storia.
Provincia maledetta. Qui essere originali passa anche per la scelta delle vacanze. A me non piace fare gruppo – esoterista quale sono, tollero al massimo la compagnia di 4 spiriti affini, possibilmente con il logo degli AC/DC tatuato sulla chiappa sinistra – e la mia vacanza, mentre amici e colleghi invadevano le spiagge di tutto il mondo, era sempre la stessa: fuga in Molise. E poi in questa regione ho goduto da purcello elettrico, basta citare il concerto per pochi intimi che gli Iron Butterfly tennero sull’altopiano di Cercemaggiore al raduno di bikers, sarà stato il 2006. Sento ancora l’umido nelle ossa e In a gadda da vida interminabile e ossessiva. Oggi sono andato a Campobasso per un incontro che si è rivelato positivo: eravamo nelle segrete del Caffè del teatro a confabulare in merito a dei diabolici incontri rock che presto trasmetteranno l’infido contagio elettrico in una terra mansueta come il Molise. Satanasso e i Venom vegliano dal basso.
Avrei tanto da dire sul Molise: ci ho lavorato, mi sono ubriacato, ho riso a crepapelle e mi sono emozionato come un bambino. Con il tempo questo diario sarà sempre più popolato di presenze sannite, osche e pentre. Regione da amare e da odiare. Un mio amico arianese (nel senso di Ariano Irpino, non razza ariana) di cui non faccio il nome – ma il cognome: Romano – sta ancora pensando a un paio di tette che scoprì a Ripalimosani, roba che gli si sono modificate le sinapsi e ancora oggi parla di “balconate”. Un mio amico professore di cui non faccio il nome – ma il cognome: Araldi – sostiene che i molisani siano tutti matti per un motivo più che considerevole: una campobassana non gliel’ha data. E dire che lui ha insistito. Quando mi dirigo verso Campobasso gustando curve, rette, solchi e buche della SS. 87 Sannitica (luogo dello spirito e delle caciotte a buon mercato del bar Prozzo), ritrovo sempre me stesso. Finestrini spalancati col freddo che ti pizzica fin dentro le mutande, urla liberatorie alla Ian Gillan quando superi il camion ciccione inchiodatosi per 20 km., sospiro malinconico quando scorgi in lontananza i paesini aggrappati alle montagne. Più originale di così.