Lo studio immersivo nella storia di Roma antica mi ha fatto scoprire che l’antico adagio Homo faber fortunae suae è antico per davvero. Lo ricordavo come espressione somma del Rinascimento invece è da attribuire a Appio Claudio Cieco, che l’avrebbe formulato così: Faber est suae quisque fortunae.
Mi piace il termine faber, rivela tutta la sua romanità: il fabbricarsi la gloria, l’essere artefici orgogliosi del proprio destino, costruirlo con mani cuore visione fibra tensione respiro. La parte evidente della nostra fortuna deriva dal nostro volere; la parte nascosta e inconscia proviene da molto più lontano e ci spinge, inconsapevoli, verso certi incontri. Ne siamo artisti, più che artefici: l’arte condensa volontà e istinto, intenzione e pulsioni sotterranee.
Sono molto fortunato, davvero molto, per tantissimi motivi. Uno di questi sono gli incontri. La scorsa settimana a Roma, poco prima della presentazione del libro Litfiba con il maestro Guglielmi, ho incontrato dal vivo – finalmente – il fotografo autore degli scatti ai CSI in Bretagna.
Claudio Martinez, prezioso umano dunque prezioso artista, mi aveva concesso un po’ di ritratti inediti per il mio libro ma stavolta si è superato donandomi questa piccola grande opera in legno carbonizzato, memoria, sguardo e amore.
È Giovanni Lindo Ferretti, fine agosto 1993, Finistére. L’ingrandimento di questo scatto divenne copertina: gli occhi di Giovanni nell’epifania bianco elettrico di Ko de mondo.