Non ce l’ho con gli Etnia Supersantos. Ce l’ho con quello che rappresentano, incarnando anni di subcultura danzereccia italiana, quella da juke-box, da falò, da vacanza intesa nel peggiore dei modi: va
catio, assenza, disimpegno, cervello e cuore staccati, gambe in movimento evviva lu Salento. L’abominevole uomo delle fogne, al di là delle irritanti faccine buffe del gruppo – più che da falò in spiaggia, da rogo in pubblica piazza – è un album piacevole e friccicarolo: la logica della canzone si apre a infiltrazioni funk, reggae, swing e calypso in una girandola vivaddio ironica, che cerca persino di evitare i luoghi comuni con ampie dosi di provocazione. Se penso all’ascoltatore medio di questa band mi girano i coglioni: qualcuno dovrà pagare prima o poi, ma per ora gli Etnia si salvano.
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Di tutt’altra pasta il nuovo lavoro dell’Illachime Quartet. Chi ha confidenza con quell’area tutta mobile e pulsante del rock di frontiera conosce bene la creatura di Fabrizio Elvetico: quella Napoli sofisticata e visionaria che ha partorito compositori del calibro di Luciano Cilio e Girolamo De Simone, in questo progetto si declina in chiave art-rock. Il terzo album Sales è la conferma – se ce ne fosse ancora bisogno – dell’eccezionale talento della formazione, stavolta ampliata da ospiti come Mark Stewart, Philippe Petit e Black Era: un susseguirsi serrato di immagini virate in remix creativo tra minimalismo, rock-jazz futuribile e ambient. Meditativo e policromatico, è un lavoro molto stimolante. Se si pensa alla mediocrità musicale che sprigiona Napoli da un bel po’ di anni, Illachime Quartet ha tutto il sapore di un miracolo.
Stando a piccole e personali indagini, l’ascoltatore medio rock – quello nato con i Deep Purple, cresciuto con gli U2 e invecchiato tra cofanetti, box e ristampe celebrative – detesta cordialmente il folk. Sto avviando un nuovo esamino tra amici cultori, sottoponendogli gli Edaq. Dalla parte del cervo è un debutto eccellente perchè alla ricerca folk il quartetto abbina un brio, una verve, un “groove” – per usare un termine caro alla cultura rock – che raramente troviamo in formazioni di musica tradizionale. Non siamo in ambito global-folk alla Gai Saber, per intenderci: la miscela dell’ensemble piemontese parte dalla rivisitazione creativa del ‘bal-folk’ e si apre a modalità esecutive care al jazz. L’interplay sempre eccitante, la scelta di arrangiamenti intriganti, un’accortezza alla tradizione senza disdegnare atmosfere folktroniche: insomma, un esordio coi fiocchi.
D.Z.