“Su quel periodo dei CSI ho detto tutto il dicibile ma proviamo”.
Immagino faccia freschino a Carpineti, immagino il mio interlocutore seduto al telefono, caminetto acceso in lontananza, gatto sulle ginocchia. Per Massimo Zamboni questo è un atteso fine settimana dopo i furori berlinesi di qualche giorno fa, e capisco che ha la mente satura di immagini, suoni e parole, quindi non insisto nella spremitura e mi limito a interrogativi più blandi, pronto a ficcarmi dritto solo quando annuso la fenditura profonda del ricordo.
Trovo uno Zamboni rilassato, stanco ma sereno, pronto a rispondere alle mie domande. Pensavo di dovergliene fare davvero tante ma le sue risposte, solo in apparenza telegrafiche, sprigionano un senso compiuto che non ha bisogno di essere approfondito. Deve accadere e infatti accade.
Per certi versi più di Giovanni Lindo Ferretti, che dalla sua ha la potenza declamatoria e il carisma della contraddizione di chi possiede moltitudini, Massimo ha la calma serafica di chi ha scelto un ruolo definito e sa che gli serve poco, o meglio il giusto, per esprimersi compiutamente. Così in quelle frasi argomentate in modo ordinato, senza scossoni logici ma con immagini vivide, trovo quanto mi serve.
“Allora, me la sono cavata bene?”.
Ce lo diranno i lettori tra un paio di mesi.
[ph. Matteo Frezza]