Che bella scoperta i Salici. Al di là della sapiente scelta grafica, dell'attenzione al dettaglio che rende il disco un intrigo di simboli, questa band è la prova di come certi luoghi possano essere una dirompente fonte d'ispirazione. Provenienti dal Nord Est estremo, dalle zone bagnate dall'Isonzo, i Salici respirano e ragionano sul confine, tanto da farlo diventare luogo dello spirito, stato mentale, ideale – e reale… – sedes materiae per una musica che ha nel suo Dna un'inclinazione mutante.
Basta un titolo come “Nowhere better than this place, Somewhere better than this place” per capire che il quintetto friulano si posiziona su un'idea “elastica” di geografie umane e musicali. Un susseguirsi di atmosfere fluttuanti, a volte oniriche, a volte vibranti, che hanno la loro matrice nella originaria incarnazione del gruppo – la musica medievale – e che spaziano tra il folk psichedelico caro all'Incredible String Band e l'esperimento di “Led Zeppelin III”.
Il punto di forza dei Salici è nella varietà del clima creato: ballate magiche e incalzanti (“XIII Century Blues”, “Wood jacked”, “Don't get down first”) che profumano di passato e modernità, balzi in ipotesi di post-rock acustico dal sapore floydiano (“Led” e “So high”), ricordi rock-jazz e progressive. I Salici vogliono esplorare anche altri ambienti sonori: basta paragonare l'eccitante “Eyes in windows” – probabilmente il momento più rappresentativo dell'album – al fragoroso rock di “Disco” per capire che la dimensione acustica e arcana è decisamente più adatta.
Un felice album d'esordio per una band che ha qualcosa di importante da dire.
D.Z.