Il maestro di yoga è un omino sottile, flemmatico, felpato.
Movimenti precisi, pensati, una sorta di veloce ralenti. Morbidi come quel codino a pallina lassù in cui tutto è uno.
Quando siamo nella fase terminale sotto la copertina himalayana, dopo lo snodamento degli asana – che pare siano otto milioni: dal boa all’aratro – verso la costellazione ombrosa della quiete, la sua voce risuona autorevole, ma adagiata nel garbo. “Il corpo è completamente rilassato”, dice, con l’accento avvolto intorno alla erre per creare una sospensione cosmica, tipo materassino nell’etere.
Mi ricorda Bob Dylan.
Nulla ha in comune con l’altro maestro – non è arcigno, non ha la voce di carta vetrata, non credo abbia ricevuto il Nobel (non ancora) – eppure ha una sostanza affine. O meglio un asana: quello della distanza. Un filo dorato con le radici al cielo gli tiene la testa su, su e ancora su, lo sguardo alto, lontano, siderale, benevolo sulle cose misere di noi umani fatti di fango impastato di paure e speranze.
Mi piace pensare che sia anche maestro di serendipity. Come quel tizio amico mio – anzi conoscente, a proposito di distanza – che nasava le cicche di sigarette e trovò un’aurora boreale, come Cristoforo Colombo che cercava le Indie e ficcò il naso tra gli americani, come Frank Zappa che trovava nella stecca l’arrangiamento perfetto.
Sto scrivendo un nuovo libro su Battisti, l’ennesimo anzi l’ultimo prima dell’ultimissimo, e mi piace girovagare altrove a caccia di stelle fisse e pietre dure. Serendipity letteraria, potrebbe chiamarsi. Così leggo Sciascia, L’affaire Moro. Cercavo Lucio e ho trovato Borges, Don Chisciotte e i cannileddi di picuraru, che nulla hanno di battistiano ma da qualche parte porteranno. Hari-Om.