La provincia paludosa aveva anche i suoi pro.
Di tanto in tanto, nelle secche di interminabili estati, senza clamori pubblicitari spuntava fuori un concerto, del tutto inatteso. Ricordo tante volte la PFM e Le Orme in larghetti piccini di paesi sperduti, quelli in cui centro e periferia coincidono.
Inevitabile ascoltare il Banco.
Più che per la musica, a volte si andava per la chiacchierata con Rodolfo a fine concerto. Il palchetto misero accanto alla fontana in un borgo alle estreme propaggini della regione. Tra un brano e l’altro il povero Francesco intrattenne il pubblico, un po’ distratto da cose festanti nei dintorni, sull’esigenza di popolare la piazza anche di musica diversa.
Qualche nostalgico radicale chiese Il Giardino del Mago e cavalli di battaglia dei tempi progressivi, improponibili in quel difficile incrocio tra spazio e tempo. Ricordo ancora il vocione imperioso del Nocenzi, smicrofonato, levarsi dal suo castello di tastiere: Non siamo un juke box!
Ieri mi sono regalato una bella e intensa conversazione con Vittorio. Sono al lavoro su un nuovo libro, la sua partecipazione critica era doverosa.
Credo che sia doveroso per chiunque abbia a che fare con la musica un confronto analitico con lui. Il dialogo con Nocenzi fluisce da Keith Emerson a Oscar Wilde, dalle orchestrine anni ’60 alla tensione utopica ancora viva nel presente ma velata.
Proprio ieri Alessio Vitelli ha condiviso la sua locandina immaginaria – mai così reale e stringente – del Banco. Orizzonti sonori passati e futuri.