Mudra Sounds VIII.
Let It Slow.
In questi Infiniti Giorni Piovosi 13 dei Black Sabbath è presenza incessante. Folate di superdoom in sintonia misterica con l’esterno, gorgo di piombo e fango, corrispondenza d’elettrici sensi.
Lo dicevo qualche giorno fa nell’incontro sui dischi del cuore: Black Sabbath gruppo del cuore, con album sgraffignati nel negozio di dischi perché da ragazzetto certe cose dovevi averle anche se non potevi permettertele. Hanno insegnato lentezza, cadenza, spazio e respiro: la loro influenza nella storia del rock è incalcolabile.
13 non è il loro miglior disco, visto che replica in modo pedissequo umori, contenuti e sequenze dei loro capolavori, ma mi travolge come pochi altri. Mi diverte immergermi nel libretto, con quelle divisioni formali tra riff, verse, bridge, chorus e reprise che mostrano l’ossatura, lo scheletro prima della voragine, colonna sonora da risucchio nell’Ade in pomeriggi abissali.
Loudness War a parte, Rick Rubin li ha fatti volare in una nuvola tempestosa di rombi e saette. Come dal vivo, quando Ozzy fa le facce durante gli stacchi finali di Into The Void e scaraventa sul pubblico una tregenda apocalittica: sorridente, regale, una divinità che dall’Olimpo Dark osserva lontano i destini umani.