Vent’anni fa.
Volati via, un soffio. È vero che tutto passa, tutto deve passare, ma tutto resta, in qualche modo e in altro modo, nelle cellule, nella speranza, nei risvegli. Una canzone, un’esperienza, un sapore, un desiderio, uno sguardo, il pulsare di una mano nella mano, il dirigersi spedito di un passo accanto all’altro. Un alito. E vorresti che restasse, come My Sweet Lord che quando finisce speri che non finisca mai.
Probabilmente George lo aveva capito, addentrandosi nelle verità della impermanenza sin dai tempi d’oro di quel bailamme diventato nevrosi, e via dai palchi, e le Apple Scruffs, e Magic Alex, e Paul ducetto, e poi Get Back che tutti sanno perché tutti hanno visto. Dalla Beatlemania all’India misterica. A Ringo non piaceva molto, le acque del Gange lo sanno bene, miscuglio presocratico che accoglie e scioglie nella Grande Acqua.
Nel 2019 ho avuto la fortuna di potergli dedicare un libro. Roba piccola, un tascabile che peraltro non c’è più, questioni editoriali tristi – più pertinente il desueto termine tristanzuole.
All Things Must Pass, titolo-motto malleabile, dogma non dogmatico che vale anche per righe appassionate. Ma tutto si trasforma, le Harrisongs col loro volto imbronciato e il loro passo mestamente solenne si impastano di lacrime e sorrisi, le pagine mutano in altre.
Sto lavorando a una riedizione del volumetto dedicato alla canzone più celebre di George Harrison, non-dedicata a Pattie ma la potenza del video tutto sguardi amorosi e fossette ha decretato un’altra storia. Nella versione riveduta, corretta, integrata e piena di desiderio che le cose vadano come devono andare ma vadano soprattutto bene, con amore, c’è anche dell’altro. Un altro musicante solitario sul quale ho scritto tanto, dissolto in altri abbracci.
Il 29 dicembre con la Big Band dell’associazione omaggeremo George Harrison alle Officine Cantelmo, a Lecce. Un concerto speciale con tutto il magnifico album del 1970.
Ognuno ha il suo motivo per rivolgere un pensiero amorevole a George. Il mio? Beware of Darkness.